Otto Settembre 1943

Ero artigliere alpino nella caserma di Rovereto da circa quaranta giorni ed avevo diciannove anni appena compiuti. La mia compagnia, la mattina dell'otto settembre 1943, parte in tradotta per la caserma di Maia Bassa di Merano. Due ore dopo ero già in caserma e in camerata al II piano dell'edificio. Alle undici distribuiscono il rancio; pochi attimi dopo gli altoparlanti della caserma trasmettono il discorso del generale Badoglio che in sostanza dice: “la guerra è finita, ma gli amici di ieri sono i nemici di oggi”.
A dir la verità non capii molto di quel proclama ma, ciò che era certo, i nemici di oggi erano i tedeschi. Non sapevo come comportarmi, come del resto molti dei miei stessi compagni.
Mentre riflettevo sul da farsi mi sento chiamare da un alpino della caserma confinante con la nostra: mi avvicino, lo riconosco è un mio amico di giochi di San Giorgio, rione di Rovereto (lui è più vecchio di me di due anni) che mi dice: “Ermanno, vai subito in camerata, prendi il prosacco che poi assieme torniamo verso il passo delle Palade e quindi a casa, a Rovereto”. Pensai che quella era la soluzione migliore.
Salgo, entro in camerata, prendo il prosacco e faccio per tornare, sulla porta trovo il nostro tenente che non mi fa uscire. Voi siete delle reclute, diceva, non avete fatto il giuramento: nessuno vi torcerà un capello. A questo punto, pur a malincuore rimasi in camerata. Il mio amico (seppi poi al rientro dalla prigionia) riuscì a raggiungere la propria casa. Dopo circa un'ora che ero in camerata, dalla finestra del cortile, vedo un carro armato tedesco e subito dopo sento delle grida che provenivano dalle scale, ma soprattutto si sentiva “Raus-Raus”. Soldati tedeschi entrano in camerata, ci fanno uscire e ci radunano nel cortile della caserma. Anche il mio tenente è prigioniero con altri ufficiali. Dopo due ore partiamo in fila per tre a piedi e dopo quattro ore circa arrivammo a Bolzano in una caserma dove c'erano ancora pochi soldati italiani e ricevemmo l'ultima pasta come rancio. Passammo la notte in camerata con solo paglia per terra, ma era tanta la stanchezza che come mi coricai mi addormentai. Penso ora a quanti fatti erano successi in una sola giornata. Svegliati al mattino presto, i tedeschi ci radunano nel cortile della caserma, ci avviano verso la stazione di Bolzano ove attende un treno merci. Venimmo schierati in gruppi di cinquantasei davanti ad ogni vagone; ecco, in questo momento avviene la prima violenza da parte tedesca. Il soldato che era a nostra guida chiede “Wie viel uhr ist” indicando il polso con il dito indice; qualche mio compagno comprendendo il gesto alzò il braccio guardando l'orologio, a questo punto il militare puntando il mitra si fa consegnare l'orologio. Io ebbi un gesto di reazione e di disprezzo nei confronti del tedesco, ma fortunatamente non se ne accorse. Salimmo sui vagoni, chiusero il portellone dall'esterno e così partimmo per la Germania con destinazione ignota. Nel vagone in cinquantasei non riuscivamo a stare seduti; così ci davamo il turno: il problema erano i nostri bisogni fisiologici. Un mio compagno tirò fuori una baionetta rinvenuta nello zaino e con quella riuscimmo a fare un buco nell'angolo del vagone. Assieme a noi reclute c'erano anche i “veci” che avevano fatto la Russia, e loro ci rincuoravano perché c'era chi piangeva e chi non si dava pace. Io affrontai la situazione con rassegnazione. Passammo tutto il giorno rinchiusi nel vagone e solo verso sera il treno si fermò.
Aprirono il portellone e ci diedero la prima zuppa di acqua e rape: eravamo fermi su un binario morto, si vedeva la stazione poco distante. Dopo circa un'ora riprendemmo il viaggio e passò tutta la notte. Alle prime ore del mattino il treno rallentò ed andò avanti lentamente; dal finestrino del vagone vidi che eravamo su un solo binario lontano da abitati; poco dopo si fermò.
Subito ci aprirono il vagone ed urlando “raus-raus” ci fecero scendere. Seppi dopo che eravamo arrivati al campo M. Stammlager XI-B vicino al paese di Fallingbostel e che eravamo internati militari con nessuna assistenza e costretti a lavorare per il Reich.

1. È una forma italianizzata della parola “prosàc” che nei dialetti dell'area veneto-trentina significa “zaino”; nel nord dell'area il termine indica anche il tascapane o lo zaino tirolese.

Fallingbostel

Dal treno, incolonnati, entrammo nel campo. Era una estensione enorme piena di baracche, tutta circondata da filo spinato; attorno si vedeva in lontananza il bosco. Ogni baracca era formata da dodici stanze ed ogni stanza da dodici letti-castello a tre piani senza materassi, con il piano di nude assi di legno. Subito dopo ci chiamano ed in fila ci fotografano con un numero grande davanti. Il mio è il 151-909 e da quel momento il mio cognome non esiste più. Nel pomeriggio arriva un gerarca fascista accompagnato da due soldati delle SS e davanti alle baracche sale su uno sgabello e ci informa che Mussolini è stato liberato e che se vogliamo ritornare in Italia basta firmare l'adesione, ma se decidiamo di rimanere ci attenderà una vita difficile e soprattutto tanta fame. Tra fischi e urla contro il Duce il gerarca se ne andò. Furono pochissimi quelli che firmarono.
L'adesione che bisognava firmare (ne rileggo il testo trascritto dall'Ass. Naz. ex internati) era: “Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituente nuovo esercito Italiano del Duce senza riserva anche sotto il comando supremo tedesco contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich Germanico”. Solo alla sera ricevemmo un mestolo di acqua e rape, un chilogrammo di pane ed un etto di margarina da dividersi in otto. Questo era quanto distribuivano per l'intera giornata.
Due giorni dopo al mattino, in circa duecento ci caricarono sui camion e dopo parecchie ore di viaggio arrivammo in un campo anche quello cintato da filo spinato, all'interno quattro baracche più una usata dal comando tedesco. La baracca era di forma uguale a quella del campo precedente, con letti a castello a tre piani; in più, nella camerata c'era una grande stufa. I tedeschi di guardia erano militari della Wehrmacht, una decina, oltre al comandante. Il campo era prossimo ad un piccolo paese. Poco dopo il nostro arrivo ci radunarono nel piazzale e ci contarono per l'ennesima volta; quindi ad ognuno chiesero che mestiere facevamo in Italia. Quasi tutti, me compreso, rispondemmo “contadini” nella speranza di essere assegnati a un lavoro agricolo. Le nostre speranze si spensero presto; alle sei del mattino seguente, infatti, dopo una tazza di caffè d'orzo partiamo in squadre; percorsi alcuni chilometri di marcia arriviamo davanti ad una grande fabbrica in costruzione. Entriamo nel cantiere; dei civili tedeschi ci prendono in consegna, e a squadre di quindici ci avviano ai diversi lavori.
Capitai nel gruppo che doveva scaricare i mattoni dai vagoni ferroviari. Pensavamo che a mezzogiorno ci dessero il rancio. Solo mezz'ora di riposo invece, e niente rancio. Alla sera, al ritorno, la cena consisteva di un mestolo di acqua e rape, del solito pane e margarina da dividersi per otto.
La fame era tanta, e ad ogni giorno che passava mi sentivo sempre più debole anche a causa del lavoro in cantiere.

Vita nel campo

Un giorno il mio amico Fausto Festini (compaesano di Borgo Sacco, rione di Rovereto) mi informò, dato che lui faceva l'imbianchino nel campo ed aveva l'opportunità di andare in paese, di aver adocchiato vicino ad un ospedale dei mucchi che certamente erano di patate. In Germania (l'ho saputo dopo) per conservare le patate ne fanno dei mucchi a piramide, ricoprendoli con paglia e terra, mentre alla sommità mettono un tubo come sfiatatoio. Pensammo che di notte si poteva andarle a rubare. A come si potesse riuscire a rubarle, noi pensammo per parecchi giorni. La decisione fu che io mi procurassi in cantiere una pinza, un cacciavite e della corda.
Con la pinza Festini avrebbe dovuto tagliare il filo spinato e nello stesso tempo riagganciarlo, allorché dipingeva i paletti di sostegno del filo spinato. Il cacciavite serviva per sbloccare il soffitto della camerata ed una finestrella in alto; la corda, invece, per calarci dall'alto della baracca. Ci volle circa un mese per essere pronti.
In quel periodo tutte le sere controllavo dalla finestra i movimenti delle guardie. Così capii che dopo mezzanotte la sorveglianza era molto rallentata e che le guardie uscivano per i controllo ogni quindici minuti. In cantiere mi procurai il necessario. Al rientro al campo venivamo sempre perquisiti, ma avevamo la possibilità di portare della legna per scaldarci.
In mezzo alla legna nascosi prima il cacciavite, poi la pinza e la corda. Decidemmo una sera. A mezzanotte passata uscimmmo, ed in dieci minuti fummo all'esterno del campo. Certo che per arrivare vicino ai mucchi di patate dovemmo saltare dei fossi pieni d'acqua ed attraversare dei campi, ma tutto riuscì facile nell'andata.
Riempimmo il prosacco di patate, cercammo di chiudere i buchi che avevamo fatto e tornammo indietro. Il peso del prosacco nel saltare i fossati mi rimbalzava sulla nuca facendomi male, ma tenni duro. Arrivati vicino al reticolato attendemmo il giro di controllo della guardia, ed al loro rientro con fatica ritornammo in camerata. Questa nostra impresa durò circa due ore.
Ci addormentammo stanchi e la sveglia del mattino fu una cosa tremenda. Per tutto il giorno pensai che al mio ritorno avrei trovato le patate già cotte dal mio amico Fausto che aveva tutto il tempo per lessarle sulla stufa della camerata. In effetti alla sera feci una abbuffata di patate, non senza distribuirne ai miei compagni. Con Fausto uscivamo una volta alla settimana, e questo per oltre un mese. Una sera al rientro Fausto mi avvisò che i tedeschi si erano accorti del filo spinato tagliato e così ebbero fine le nostre uscite e le nostre abbuffate. La domenica era l'unico giorno di riposo, al mattino quel fetente del comandante ci radunava nel cortile, ci chiedeva se volevamo firmare per tornare in Italia, poi al nostro rifiuto ci faceva marciare a passo romano per circa un'ora. Era anche la giornata dedicata alla pulizie personali e allo spidocchiamento degli indumenti. I tedeschi distribuivano una lettera speciale che ci permetteva di scrivere una volta al mese a casa, con allegato ad essa un “buono” affinché i nostri famigliari ci potessero inviare un pacco con indumenti e generi alimentari. Passò il Natale e l'inizio dell'anno 1944 molto malinconicamente; i nostri discorsi cadevano sempre su come nel passato avevamo trascorso le feste natalizie in famiglia, elencando i vari menù. Tra noi c'era anche chi era sposato ed aveva dei figli.
Il rapporto con i militari era pessimo; né migliore tuttavia era quello con i civili. Sia gli uni che gli altri coglievano ogni pretesto per darci addosso. Io non mi ero mai fatto capire di conoscere il tedesco, sia al campo che in cantiere, temendo che avrebbero preteso che facessi da interprete ai miei compagni di lavoro. Non capire il tedesco serviva inoltre a rallentare il lavoro; se mi chiedevano un badile, ad esempio portavo un picco, ecc; pur se questo gioco veniva ripagato con pedate e ceffoni da parte dei civili tedeschi. Noi avevamo un interprete, era un alto-atesino; ma in cantiere non veniva, restava sempre al campo. Di certo non era un nostro sostenitore, non l'ho mai sentito prendere le nostre difese, anche se capivo che non era molto facile.
Le incursioni degli aerei americani e inglesi erano sempre più frequenti di notte ed in distanza si sentivano gli scoppi delle bombe. Il nostro campo era tra due grandi città: Hannover e Braunschweig.

Nostalgie, fame, ricordi

A gennaio arrivarono le prime lettere e quasi tutti avemmo notizie dei nostri famigliari, insieme ai primi pacchi, con nostra grande gioia. Le notizie che ebbi dai miei erano fortunatamente buone. Il primo pacco lo ricevetti ai primi di marzo, ed è stato quello un giorno di festa. Finalmente potevo mangiare qualche cosa di diverso in qualità e quantità. Nel pacco, oltre a pane secco, scatolette di carne ed altro, c'era un sacchetto di farina di granoturco. Preparai la polenta con grande gioia mia e dei miei amici. Ormai si era instaurata una consuetudine; chi riceveva il pacco dall'Italia divideva qualche cosa con gli amici. A mancarci era anche il sole. Quante volte nelle nostre conversazioni lo ricordavamo con tanta nostalgia. In Germania il clima era pessimo. Nello spazio di una giornata era capace di piovere e di nevicare due o tre volte a seconda della stagione; in due anni m'è accaduto raramente di vedere un'intera giornata di sole, e questo ci aumentava la malinconia.
In cantiere, nel frattempo, avvenne un fatto che mi rattristò parecchio. Alla mezz'ora di riposo del mezzogiorno noi arrivavamo con una fame morbosa. Nel cantiere c'erano delle “baracche-cucine” dove i cuochi preparavano i pasti per i civili tedeschi e alcuni collaborazionisti polacchi. Abitualmente gettavano le bucce di patate in bidoni all'esterno delle baracche. A noi era proibito avvicinarci. V'era del filo spinato che delimitava le baracche dal cantiere, ma spesso riuscivamo a passare e riempivamo le tasche ed il cappello d'alpino di queste scorze. Io rischiavo tutti i giorni pur di calmare un po' la fame. Un giorno, era il mese di di marzo, venne con me un mio compagno di Folgaria, si chiamava Renato Cappelletti. Purtroppo alcuni militari tedeschi ci videro; io riuscii a scappare, lui rimase impigliato nel filo spinato. Seppi poi che morì a seguito delle botte ricevute. Questa notizia la ebbi alla sera, al rientro dal campo, e ne fui sconvolto.
I soldati tedeschi per tutto il pomeriggio indagarono poi nel cantiere per scoprire l'altro italiano che era fuggito. Per non farmi riconoscere scambiai il cappello d'alpino con la bustina di un amico fante, così che riuscii a non essere riconosciuto.
Vedi il caso: avendo acquistato due decenni or sono un appartamento a Costa di Folgaria, mi riprese vivo il ricordo del povero Renato. Col macellaio di Folgaria, lui pure di nome Cappelletti, nel frattempo avevo fatto amicizia; per più anni comunque non ho avuto il coraggio di chiedergli se avesse un parente morto in campo di concentramento in Germania. Finché un giorno con tatto glielo chiesi. La risposta fu negativa, ma volle sapere il perché della mia domanda. Gli raccontai cosa era successo al povero Cappelletti nel campo di lavoro. Gentilmente mi mise allora subito in contatto col fratello del mio compagno d'internamento, al quale con commozione raccontai quanto io sapevo; egli mi chiese a sua volta se non avessi ritrovato in paese l'Elio Port, anche lui di Folgaria, che era stato con noi nei campi in Germania. Immediatamente mi venne in mente l'Elio Port e così gli chiesi se mi poteva accompagnare a casa sua perché desideravo rivederlo. Mi accompagnò e quando vidi il Port pur dopo tanti anni lo riconobbi subito e lo abbracciai con la gioia di aver ritrovato un compagno di prigionia. Mi seppe ricordare, per altro, la denominazione del primo campo di lavoro che non ricordavo (Campo 6008 in località Hiltherode) e la dislocazione del cantiere ove trovò la morte il mio sfortunato compagno (Ruespringhe).
Ora ci vediamo spesso sia d'estate che d'inverno ed a volte ricordiamo quei brutti momenti, ma cerchiamo di parlarne il meno possibile.

Resistenza

Il nuovo lavoro nel cantiere era di portare ai piani superiori di una grande costruzione dei tubi, che venivano successivamente saldati dai civili tedeschi; molto probabilmente servivano per la produzione di prodotti chimici. Pensammo di sabotare l'impianto e così inserimmo nei tubi (di circa dieci centimetri di diametro) degli stracci, spinti con forza all'interno con un bastone. Questa cosa ci dava una gioia immensa per quanto il rischio fosse grande. Incominciai in quei giorni a non stare bene, a soffrire di dissenteria grave e continua, qualsiasi cosa mangiassi, così che infine, non reggendomi più in piedi, fui ricoverato in infermeria. Qui, per altro, non mi fecero alcuna cura ma perlomeno non dovevo andare a lavorare. V'erano là con me quattro o cinque compagni, più o meno con gli stessi sintomi.
Improvvisamente un mattino ci fanno fare i bagagli, ci fanno salire su un camioncino, e via. In viaggio tra di noi facevamo delle previsioni molto nere sul nostro futuro perché già circolava la voce di campi di annientamento di prigionieri. Fortunatamente (si fa per dire) ritornammo al campo base, allo Stammlager XI-B. Nella baracca che questa volta mi fu assegnata eravamo tutti in pessime condizioni di salute, al punto che con fatica ci reggevamo in piedi. Alla mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il poveretto veniva preso, messo in una “finta cassa” da morto e quindi trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche c'era una grande fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi il fondo della stessa veniva sfilato, il corpo cadeva e subito gli veniva versata sopra della calce in polvere.
Il carretto tornava con la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere, e così via.
Questo lavoro veniva fatto eseguire dai tedeschi a noi prigionieri.


Al mattino dovevamo alzarci per essere contati, ma facevo una fatica enorme a stare in piedi perché mi si erano gonfiate le gambe; tuttavia capivo che rimanere in branda sarebbe stata la mia fine; per riuscire a camminare mi appoggiavo alla parete esterna della baracca. Il rancio era sempre un mestolo di acqua e rape ed un pane da dividere in otto.
Due o tre giorni dopo al mattino sentii chiamare il mio numero dalla baracca del comando tedesco. Con uno sforzo enorme raggiunsi la baracca. Il soldato che mi aveva chiamato mi informò che c'erano due pacchi per me. Li aprì per controllo, tolse per sé due pacchetti di sigarette, e me li consegnò. Lentamente, ma con gioia immensa tornai in baracca e sulla branda aprii il primo pacco che era di mio zio Ugo, di Russi di Romagna, al quale avevo inviato con la posta mensile il mio “buono”. Conteneva un salame e tanto pane secco romagnolo. In quel momento intuii che forse ce l'avrei fatta a rimettermi. Rinunciai al rancio in favore dei miei compagni e per parecchi giorni mi sostenni solo con il contenuto dei pacchi. Il secondo pacco era stato spedito dai miei e comprendeva anche degli indumenti e del riso, che cuocevo quando mi era possibile. In una maglia trovai due pacchetti di sigarette non visti dal soldato tedesco; questi furono, come si vedrà, la mia fortuna.
Lentamente la dissenteria cominciò a diminuire, le gambe si sgonfiavano e cominciai a camminare con franchezza.

Hildesheim

Mi accorsi a questo punto che confinavamo con un campo di prigionieri francesi. A guardia del cancello che divideva i due campi v'era un soldato tedesco. I francesi potevano venire nel nostro campo, mentre a noi era proibito andare nel loro. I soldati francesi erano assistiti dalla Croce Rossa, e “radio scarpa” diceva che avevano abbondanza di viveri. Con i due pacchetti di sigarette, pensavo, potrei forse corrompere la guardia per farmi passare. Provai con il soldato del mattino: mi rispose “nein”, ma quello di guardia nel pomeriggio accettò le sigarette, e riuscii così a introdurmi nel campo francese.
Entrai nella prima baracca ma fui respinto: mi chiamarono “maccaronì”; tuttavia nella seconda ebbi la fortuna di trovare dei giovani con i quali simpatizzai; erano anche loro della mia età, e ad essi raccontai la mia storia. Mi accordai con loro per andare a fare i vari lavori domestici e cucinare qualche piatto all'italiana. Il problema era che per entrare e uscire dal campo senza venir fermato dovevo avere l'apparenza francese. Mi prestarono un pastrano e una bustina, e la cosa si rivelò ottima perché non ebbi nessuna difficoltà nell'entrare e tornare. Con i giovani francesi a volte si discuteva anche di politica e su un punto eravamo in pieno accordo: fascisti e nazisti dovevano essere sconfitti a vantaggio della democrazia. Questo andazzo durava già da una quindicina di giorni quando un mattino, dopo la solita conta, venne un dottore tedesco. Mi visitò e disse ai soldati che prendevano nota che io ero ormai in grado di riprendere il lavoro.
Avendo compreso quanto il dottore aveva diagnosticato, nel pomeriggio andai nel campo francese ed informai i miei amici che dovevo tornare al lavoro; li salutai e ringraziai tutti e ci abbracciammo. Al rientro mi accompagnò un amico francese perché doveva riprendersi il pastrano e la bustina che indossavo.
Fui molto dispiaciuto di questo addio. Era il mese di maggio e si incominciava a sentire aria di primavera.
Dopo due giorni, al mattino fui chiamato con altri sei compagni; ci caricarono su un camioncino e come al solito senza sapere la nostra destinazione, partimmo.
Immaginavo di venir riportato al campo da dove ero partito.
I miei compagni provenivano da altri campi, dicevano che andavamo a lavorare in campagna; arrivammo invece ad un altro campo molto piccolo. V'era una baracca con una trentina di soldati italiani. A sorvegliarci un caporale tedesco, zoppo. La baracca era situata all'estrema periferia di un paese molto prossimo alla stazione ferroviaria, e tutt'intorno campagna. Il paese si chiamava Neuhaus. La baracca era più piccola, i letti a castello con materassi di paglia. Mi sembrava d'essere arrivato in un altro mondo. La cucina era gestita da civili belgi e da loro andavamo a prendere il rancio che era distribuito due volte al giorno; il pasto era meno sgradevole, con in più, oltre al solito pane e margarina, anche delle patate bollite. La fabbrica ove andai a lavorare era vicina; si attraversava la ferrovia ed eravamo sul posto di lavoro.
Era una fabbrica piuttosto malandata, in cui si producevano mattonelle nere di catrame. La miscela per produrle era di sabbia e catrame. Iniziai a lavorare alla pressa, non era un lavoro faticoso, bensì noioso. Si faceva sempre la stessa cosa per nove ore. Si iniziava il lavoro alle otto del mattino; a mezzogiorno c'era un'ora di interruzione e si riprendeva fino alle sei di sera. Nella baracca, intanto, simpatizzai un po' con tutti. C'erano veneti, meridionali, lombardi, e l'infermiere era di Rimini. Tempo dopo mi cambiarono lavoro; mi assegnarono come aiuto ad un civile tedesco, responsabile della miscela-base delle mattonelle. Era una persona anziana, magra, piccola, con la quale pian piano feci amicizia. All'inizio, come al solito fingevo di non capire il tedesco, ma un giorno (dopo circa un mese) mentre versavamo come al solito in un grande cilindro, che aveva al centro un mescolatore, la sabbia ed il catrame bollente che arrivava dai silos, mi disse: “Mussolini ed Hitler sarebbe bene buttarli assieme (“Zusammen”) qui dentro”. Capii allora che l'uomo era contrario al nazismo. Gli assicurai con calore che ero d'accordo con lui e con l'occasione lo informai che comprendevo e parlavo il tedesco. Ebbe un sorriso di compiacimento. Il giorno dopo mi raccontò che aveva un figlio con il quale non poteva parlare di politica perché militava nelle SS. Il nazismo, si lamentava, è la rovina della Germania. In fabbrica c'era molta diffidenza tra gli stessi civili tedeschi, e quindi badavamo di non farci vedere a conversare. Tutte le mattine mi portava due fette di pane con margarina ben incartate, e per timore d'esser visto lasciava il pacchetto dietro ad una colonna. Era proprio una brava persona. Mi teneva sempre al corrente di come andava la guerra e questo mi era di conforto; venivo infatti a sapere che ormai la Germania perdeva su tutti i fronti ed era prossima alla sconfitta. Di notte i bombardamenti sulle città continuavano ed eravamo sempre svegliati dagli allarmi. Una sera, era il mese di luglio, arrivarono in ordine sparso dei grossi bombardieri che volavano più bassi del solito, e per sei-sette ore continuarono a passare. Una cosa impressionante, il rombo assordava e lontano si vedevano dei lampi. Il giorno dopo il mio amico tedesco mi informò che avevano raso al suolo Hildesheim, una cittadina molto industriale. “È stata una rappresaglia americana” mi disse.
Il giorno prima la contraerea di Hildesheim aveva abbattuto un aereo americano ed i piloti che si gettarono con il paracadute erano stati mitragliati ed uccisi mentre erano ancora in aria.
Come poteva aver saputo dell'uccisione dei piloti americani per me fu sempre un mistero, visto che erano stati abbattuti solo la sera prima. Dopo alcuni giorni mi raccontò dell'attentato ad Hitler: era fallito e c'era stata una feroce repressione.

Gli Alleati avanzano

Il compagno che alloggiava sopra di me nel letto a castello si chiamava Scognamillo (napoletano). Un bravo ragazzo sempre scherzoso e sorridente, e per me aveva una predilezione. Con lui rimasi assieme fino al ritorno in Italia.
Alla domenica portavamo fuori in cortile i letti a castello e li smontavamo perché eravamo invasi dalle cimici.
Accendevamo un fuoco, le parti staccate del letto (soprattutto gli incastri) li abbrustolivamo, e si sentiva lo scoppiettio delle cimici che arrostivano. Una mattina mi svegliai con tutta la bocca storta; andai dall'infermiere di Rimini e mi disse subito che dovevo curarmi con delle vitamine.
Riuscii a procurarmele e in capo ad un mese tornai normale.
Nel campo c'era molta libertà, il caporale tedesco era come non ci fosse: non chiudeva il cancello neanche di notte ed al mattino non ci contava più. Si fidava di noi e ci conosceva bene un po' tutti. Era un buon uomo.


Un giorno verso sera, dopo il lavoro, vennero due fascisti italiani in borghese, a chiederci se volevamo tornare in Italia e arruolarci nella repubblica di Salò; al nostro rifiuto ci proposero, in alternativa, la possibilità di venir equiparati a lavoratori civili, purché firmassimo un modulo di adesione. Tutti rispondemmo che eravamo internati e che tali volevamo rimanere. I due se ne andarono senza discussioni, pur se molto contrariati. Era il mese di settembre. Il caporale tedesco ci disse che avevamo fatto bene a non firmare, perché di certo ci avrebbero cambiato lavoro. Una mattina il buonuomo ci venne a salutare. Era stato purtroppo richiamato al fronte russo, ed era molto depresso.


Le lettere da casa le ricevevamo con una certa regolarità e le notizie che arrivavano dall'Italia erano confortanti.
Purtroppo lo Scognamillo non riceveva notizie dai suoi. A volte discutevamo di politica, ma giudicavamo solo il passato, perché la maggior parte di noi era nata nel periodo fascista e non avevamo allora un ideale politico. Ci sentivamo antifascisti, questo sì, eravamo contro la guerra ed addossavamo al fascismo di Mussolini la responsabilità di tutto quanto era accaduto. Con noi c'era a quel tempo un piemontese di una certa età, arrivato chissà come al nostro campo. Raccontava di essere fuggito dall'Italia perché socialista; tedeschi e fascisti lo cercavano. Questo piemontese, spesso alla sera ci spiegava qual'era l'ideologia socialista. Noi giovani eravamo molto interessati e gli facevamo parecchie domande, volevamo capire il valore della parola “libertà”.
L'inverno dell'anno 1944 era alla fine. Il lavoro in fabbrica, sempre quello. Dal mio amico tedesco sapevo che la Wehrmacht era in ritirata su tutti i fronti. Non vedevamo l'ora di essere liberati.
A marzo un giorno andammo in cantiere e ci informarono che la fabbrica rimaneva chiusa per mancanza di materiale.
Oramai la fine era nell'aria.

La fuga

Il giorno dopo venne un civile tedesco e ci condusse a piedi in un bosco dove c'erano delle baracche e dei prigionieri con una divisa a strisce bianche e blu (sapemmo poi che erano ebrei) ed a sorvegliarli c'erano le SS.
Sotto terra nel bosco dicevano che c'era una fabbrica che produceva la bomba “W due”. Noi eravamo addetti alla pulizia del bosco, al taglio di qualche pianta, ecc. Insomma facevamo poco o niente. Questa specie di lavoro durò circa una ventina di giorni. Eravamo così arrivati alla fine di marzo. Una sera, era il due aprile, me lo ricordo, al rientro vedo un manifesto, e mi fermo a leggerlo. Riportava l'ordine di Goebbels, datato trenta marzo, che esortava i tedeschi ad eliminare tutti i prigionieri, politici e militari. Avvertii subito i miei compagni di questo pericolo, e insieme decidemmo di non andare più al lavoro, di nasconderci in fabbrica durante il giorno e fare la guardia a turno di notte. Il mattino dopo, la strada che abitualmente facevamo era piena di soldati tedeschi in ritirata. C'erano gruppi di soldati a piedi, camion pieni zeppi di militari, un carro armato che ne trainava altri due affollati di soldati.
Per contro c'era una squadra di giovani in divisa nazista: ragazzi di 15-16 anni che cantavano. C'era anche una colonna di ebrei. Procedevano con fatica sollecitati da urla e percosse. A tratti s'udivano colpi di mitra, probabilmente sparati per uccidere in qualche fosso i più estenuati.
Noi questo lo osservavamo nascosti nella fabbrica.
Dopo questa visione decisi di scappare dal campo, senza ascoltare chi suggeriva di rimanere.
Chiamai il mio amico Scognamillo e gli dissi di prepararsi. Dopo aver cenato, come scese la notte, il prosacco in spalla, col napoletano, un valtellinese ed un vicentino, scappammo e ci inoltrammo nel bosco che era poco distante.
Camminammo tutta la notte restando sempre sul limitare del bosco per non perdere l'orientamento. All'alba, su una collina vedemmo una grande baracca e quella fu il nostro traguardo.
La baracca era tutta chiusa, con il portone sprangato, ma riuscimmo con fatica a schiodare un'asse e così entrammo. La baracca era piena di balle di paglia; accostammo parecchie balle vicino alla tavola schiodata affinché nessuno si accorgesse che era stata manomessa, preparammo un giaciglio e ci addormentammo.
Ci svegliammo verso mezzogiorno, salimmo sulle balle di paglia per vedere dove eravamo veramente: da una finestrella si distingueva un paesino, la strada e un ponte su un torrente. Ai lati del ponte si vedevano delle postazioni di cannoni con soldati. Capimmo che di meglio non potevamo trovare. C'era adesso il problema del mangiare e bere. Dalla baracca si intravedevano degli orti cintati con all'interno delle capanne. Pensammo quindi di uscire alla sera per vedere se nelle capanne ci fossero delle patate. Uscimmo all'imbrunire e ci accorgemmo che presso alcuni fossi v'erano delle lumache e ne raccogliemmo parecchie.
Nelle capanne trovammo anche le patate. Così carichi tornammo nella baracca. Ora sorgeva il problema di come cuocere le patate e le lumache. Suggerii che bisognava trovare una latta, della legna e si doveva perciò tornare alle capanne negli orti per trovare quanto ci era necessario. Pertanto io e l'amico napoletano uscimmo, e verso mezzanotte tornammo con quanto ci bisognava. Il giorno dopo al mattino vedemmo che vicino alla baracca c'era un profondo avvallamento; accendemmo il fuoco, cuocemmo le patate, arrostimmo le lumache e ci ritirammo quindi nella baracca (dimenticavo di dire che in una capanna trovammo anche l'acqua che ci servì per cuocere le patate). Passammo tutta la giornata e la notte nella baracca. Il mattino dopo apparve in distanza un carro armato, che pensammo fosse americano. Stava avanzando molto lentamente. I cannoni che erano vicino al ponte cominciarono a sparare, e il carro armato fece allora marcia indietro e scomparve. Non capimmo sul momento il perché della sua ritirata, ma dopo circa mezz'ora arrivarono due aerei americani che scaricarono a più riprese grappoli di bombe vicino al ponte; quando si allontanarono la batteria non esisteva più. Passò così tutta la giornata senza altri attacchi. Andammo a dormire con la convinzione che il giorno dopo saremmo stati liberati.
Durante la notte passarono parecchi soldati tedeschi vicino alla baracca, cercarono a volte anche di entrare, ma trovandola chiusa proseguirono.

Libertà

Al mattino presto ci svegliò un rumore assordante; dal finestrino vedemmo un carro armato americano enorme, fermo a poca distanza dalla baracca. Subito ci vestimmo, ad un bastone legammo uno straccio bianco, uscimmo sbandierandolo e ci avvicinammo. Come ci videro il carro si mosse lentamente verso di noi; fu un momento di grande gioia e insieme di paura per timore di non essere riconosciuti.
Si aprì la torretta ed uscì un soldato americano con il mitra in mano; noi gli gridammo “Siamo italiani!”. L'americano abbassò il mitra gridando “Paisà!”: era un italo-americano, figlio di immigrati meridionali, che subito fraternizzò con lo Scognamillo parlando in dialetto. Uscirono anche i suoi compagni dal carro, ci fecero festa e ci diedero sigarette, scatolette di carne e pane bianco. Era il sette aprile del 1945 giorno del mio onomastico e quello fu il giorno più bello della mia vita, ch'io ricordi!
Chiedemmo poi cosa dovevamo fare e dove dirigerci.
Ci consigliarono di superare il paese ed attendere la fanteria. Ci dissero anche che per tre giorni avevamo “carta bianca”, cioè eravamo liberi di fare qualsiasi cosa anche contro i civili tedeschi.
Li salutammo e li ringraziammo. Passando attraverso il paese vidi un carretto a quattro ruote nel cortile di un caseggiato, che ci poteva essere utile. Entrai, e forte di quanto ci avevano assicurato gli americani me ne impadronii. Uscì subito un uomo di mezza età che con furia e con l'arroganza tipica tedesca, incominciò a minacciarci urlando come un'aquila: “Raus! Raus!”, “Via! Via!”.
La mia reazione fu immediata. Tanta era la rabbia che avevo in corpo repressa da anni, che per tutta risposta lo presi a bastonate con quella specie di asta che avevo usato poco prima per sventolare bandiera bianca.
(A questo punto dei miei ricordi, l'amico d'infanzia cui li raccontavo apparve sorpreso: “Non t'immaginavo tanto aggressivo! Qual era dunque il vostro rapporto coi tedeschi, militari o civili che fossero?”.
La mia reazione, a quanto pare, gli era sembrata sproporzionata; e forse un po' lo era. Non tenendo però conto di quegli interminabili 19 mesi di vita precaria e stentata.
Mi bruciavano ancora sulla pelle, infatti, i primi sei mesi al campo 6008, la fame là sofferta, le malattie patite, dalla dissenteria alla tubercolosi; con un unico disperato pensiero in testa: sopravvivere in tali condizioni penose ed umilianti. Così che persino i rapporti di solidarietà e cameratismo tra noi scomparvero, abbrutiti com'eravamo, e solo concentrati sul problema d'arrivare vivi al termine di ogni giornata. Da parte loro i soldati tedeschi non perdevano occasione per ostentare il loro disprezzo e trattarci da miserabili. “Scheisse Mensch” - uomo di merda – era il loro normale, eterno modo di interpellarci. Non si poteva che ricambiarli con risentimento e odio maledicendo con loro anche ogni cosa che sapeva di tedesco.
Vestiti con le nostre vecchie uniformi, ormai logore e strappate, senza uno straccio di coperta per la notte, ricoperti di pidocchi. Tenuti a trasportare all'alba, per svuotarli in una vasca esterna alla baracca, i bidoni pieni d'escrementi e orina: tanto colmi che ci schizzavano ogni volta, e per l'interno giorno ci sentivamo sporchi e puzzolenti, privi di forza per reagire, camminando e lavorando come automi. Senza parlare poi delle “mancanze”: il minimo ritardo alla “conta” del mattino, un allineamento non perfetto in squadra nell'andata e ritorno dal lavoro, e così via. Erano botte dure sul momento. E peggio alla sera, rientrati e inquadrati nel cortile, prima della gavetta d'acqua e rape, dover assistere alla barbara pena d'un compagno incorso in punizione. Col poveraccio spogliato a petto nudo, costretto a sollevare pesi su e giù, e per finire, secchi d'acqua gelata su di lui. Quasi un programma vero e proprio d'annientamento fisico e morale.
La mia sorte successiva, dopo il trasferimento a Fallingbostel fu un po' meglio, grazie al Cielo, di quei terribili sei mesi. Ciò non toglie che ancora oggi a ripensarci, a cinquant'anni di distanza, non mi riesce di provare rimorso per quelle mie poche bastonate a quel tedesco iroso e strepitante. Avevo da rendergli ben altre prepotenze e angherie in quel momento. Chiudo la parentesi).

Saponette, donne!

Caricati dunque i nostri prosacchi sul carretto, ci avviammo verso la periferia del paese, e lì restammo alcune ore ad attendere la fanteria americana, ma dopo una lunga colonna di carri armati, arrivò una interminabile carovana di camion “dodge” ciascuno con due soldati alla guida e due dietro. Verso sera la colonna dei camion si fermò. Lo Scognamillo si avvicinò a dei soldati americani, trovò altri compaesani. Ci regalarono scatolette di viveri, tavolette di cioccolata, ecc. e ci informarono d'essere loro la fanteria. Ormai s'era fatta sera e ci occorreva trovare un posto per dormire. L'amico napoletano pregò un compaesano di accompagnarci in una vicina cascina di contadini. Infatti, grazie alla presenza del soldato americano, il proprietario ci offerse uno stanzone senza fiatare. Io facevo da interprete in questo caso, e la gioia che ho provato agli obbedienti “Ja” in risposta alla mia richiesta di alloggio non so descriverla. Così la notte la passammo in quella cascina.
Prima di coricarmi uscii dallo stanzone per orinare e vidi poco distante un pollaio. Tornai dai miei amici e chiesi, sia al valtellinese che al vicentino, se erano capaci di tirare il collo alle galline. La risposta fu negativa. Certo che questi due non erano di molto aiuto. Volevo prendere perlomeno due o tre galline; con lo Scognamillo escogitammo un sistema per tirargli il collo.
Preparammo dei pezzi di spago e con un sacco trovato nello stanzone, uscimmo e andammo nel pollaio, stando molto attenti a non far rumore. Le galline erano appollaiate su dei pioli, e riuscivo a prenderle per le zampe. Afferrai la prima e la passai allo Scognamillo che con lo spago le fece un nodo al collo e la mise nel sacco. Questa operazione la ripetemmo tre volte e infine tornammo nello stanzone a dormire.
Partimmo di buon mattino. Dopo un paio d'ore ci fermammo in un prato presso un bosco. Spennammo le galline, accendemmo un bel fuoco e le cuocemmo a lesso. Certo che dopo due anni di rape e patate il sapore di quel brodo e di quelle galline furono una cosa indimenticabile.
Nel primo pomeriggio ci avviammo per fare ritorno al campo di partenza. Dopo un paio d'ore di cammino giungemmo ad un paese alla cui periferia trovammo un pastificio. Ci fermammo davanti al cancello e cercammo di aprirlo. Subito intervenne un tedesco e con la solita prepotenza gridò: “La fabbrica è chiusa, non potete entrare”. Gli risposi con altrettanta fermezza che se non ci apriva immediatamente avremmo chiamato gli americani e gli avremmo anche danneggiato la fabbrica. Non se lo fece ripetere e ci fece entrare, richiuse il cancello e ci portò nel magazzino, dov'erano ammucchiate parecchie casse di pasta: una pasta corta tipo maccheroni. Ne prendemmo due casse perché di più sul carretto non ne stavano, e ce ne andammo. La pasta, sebbene non fosse un granché ci durò parecchi giorni. Tante volte penso a quanto ero deciso in quel periodo.
Alla sera arrivammo al campo e ritrovammo quasi tutti i vecchi compagni. Accanto alla nostra baracca c'era il comando americano della zona. Scognamillo il giorno dopo andò al comando ed anche lì trovo un compaesano (sergente).
Questa amicizia con il sergente ci servì, perché nella vicina stazione v'erano dei carri ferroviari chiusi, che aprimmo con la sua autorizzazione. Un carro era pieno di casse di saponette. Ne prelevammo quattro casse ed usammo il nostro solito carretto per trasportarle. Una cassa la aprimmo in camerata e distribuimmo saponette a tutti i nostri compagni. Una cassa la portai al mio amico tedesco antinazista (ne conoscevo l'indirizzo) per riconoscenza.

Il poveretto non sapeva più come ringraziarmi perché in quei momenti che mancava tutto avere una certa quantità di saponette da barattare era una fortuna. Delle due casse rimaste non sapevamo cosa farne. Un giorno allo Scognamillo venne un'idea e disse: “Perché non andiamo nelle frazioni qui vicino a barattarle in cambio di altra merce?”. “Certo”, convenni, “ma per fare questo occorre il permesso degli americani”. Lo Scognamillo andò a trovare il suo amico sergente, e tanto fece che ci venne concesso il permesso per andare nei paesi vicini. Il giorno dopo al mattino caricammo una cassa sul carretto e partimmo. A metà strada ci fermò una pattuglia della polizia americana (fascia bianca con una P al centro). Noi mostrammo l'autorizzazione scritta, ci dissero “Ok” e se ne andarono.
Il bello venne quando arrivammo nella piazza di questo paesino. Lo Scognamillo dopo aver esposto le saponette sul carretto prese a gridare in napoletano “saponette donne!”. Risi tanto, però il suo richiamo ebbe effetto, perché poco dopo arrivarono delle donne e con loro barattammo quasi tutte le saponette con uova, margarina, patate, sale ed altro che non ricordo. Tornammo al campo felici per la bella giornata passata e per la scorta di alimentari di cui c'eravamo arricchiti.

Il ritorno

Era passato più di un mese dal giorno della nostra liberazione e non si parlava nemmeno del nostro rientro a casa. Le ferrovie non funzionavano, i ponti erano saltati: praticamente tutta la Germania era distrutta. C'era solo una possibilità: rientrare a piedi in Italia. Ci fu qualcuno, più impulsivo, che affrontò questo grosso rischio, ma a me e alla maggioranza sembrava invece una pazzia attraversare a quel modo la Germania nel caos. Mi dicevo: ci hanno portato in treno ed in treno devo rientrare, a costo di attendere mesi per il rientro. E fu proprio così perché partimmo per l'Italia ai primi di settembre.
Nell'attesa ero ingrassato perché non si faceva adesso nient'altro che mangiare, dormire: e durante la giornata grandi partite a carte. Nel mese di giugno venimmo a sapere che l'aviazione americana aveva sganciato la bomba atomica su un'isola del Giappone e che il Giappone s'era arreso. Non sapevamo però che diavolo fosse la bomba atomica e quanta distruzione portasse. Ai primi di settembre, come ho già detto, partimmo in treno per l'Italia.


In carri-merci, ma questa volta aperti e con tutto lo spazio per sdraiarci. Impiegammo ben quattro giorni per arrivare a Innsbruck in Austria. La marcia del treno era lentissima; specie sui ponti, sostituiti da prefabbricati americani andavamo a passo d'uomo, e in parecchie stazioni restavamo in sosta per ore e ore. Dovunque vedevamo case distrutte e interi paesi bruciati. La città che più mi impressionò fu Norimberga, tutta una maceria. Solo alla sera del quarto giorno arrivammo a Innsbruck. Presso la stazione avevano creato un campo di raccolta, e la notte la passammo in quelle baracche. Al mattino ci fecero fare la doccia, mentre i nostri vestiti e i prosacchi furono passati nei forni per la disinfestazione: li ritrovammo a doccia finita.

Rovereto. A casa.

Nel pomeriggio partimmo per Bolzano. Il passaggio del Brennero fu commovente: chi aveva gli occhi lucidi, chi gridava: “Italia, Italia!” tanta era la nostra felicità di essere finalmente tornati. Arrivammo a Bolzano, scendemmo dai vagoni e ci accompagnarono nel vicino campo di raccolta allestito per noi reduci dalla Germania. Ci diedero il bentornati attraverso gli altoparlanti e ci informarono che dopo la cena dovevamo ripartire per Pescantina, centro di raccolta e smistamento. Così, dopo due anni mangiammo un piatto di maccheroni al pomodoro. Era il sette settembre 1945, esattamente due anni dopo la mia partenza; ma quanta tristezza al pensiero di come erano passati! Ancor oggi quando sento parlare tedesco mi si accappona la pelle e mi rattristo. Purtroppo la memoria torna sempre a quel periodo.
Verso mezzanotte ripartimmo, ed alle cinque del mattino il treno si fermò a Rovereto. Dopo aver salutato i compagni e abbracciato lo Scognamillo, scesi dal vagone che era uno degli ultimi del convoglio, attraversai i binari ed evitando la stazione mi incamminai verso casa.
A dire la verità come mi avvicinavo a casa, che era poco distante dalla stazione, le gambe mi incominciarono a tremare perché erano sei mesi che non avevo notizie dai miei. Da lontano vidi la mia casa intatta e un po' mi calmai.
Arrivato suonai il campanello due o tre volte. Venne ad aprirmi mia madre, e quasi per la commozione non credeva ai suoi occhi! E insieme apparvero le mie sorelle, tirate giù dal letto a quell'ora di mattina, assonnate e felici. Mia madre mi preparò un caffè, quindi stanco morto mi spogliai e me ne andai a letto. Ebbi la sensazione di sprofondare tanto era l'abitudine a dormire sulle assi nude.
Finalmente ero tornato a casa.