Hildesheim

Mi accorsi a questo punto che confinavamo con un campo di prigionieri francesi. A guardia del cancello che divideva i due campi v'era un soldato tedesco. I francesi potevano venire nel nostro campo, mentre a noi era proibito andare nel loro. I soldati francesi erano assistiti dalla Croce Rossa, e “radio scarpa” diceva che avevano abbondanza di viveri. Con i due pacchetti di sigarette, pensavo, potrei forse corrompere la guardia per farmi passare. Provai con il soldato del mattino: mi rispose “nein”, ma quello di guardia nel pomeriggio accettò le sigarette, e riuscii così a introdurmi nel campo francese.
Entrai nella prima baracca ma fui respinto: mi chiamarono “maccaronì”; tuttavia nella seconda ebbi la fortuna di trovare dei giovani con i quali simpatizzai; erano anche loro della mia età, e ad essi raccontai la mia storia. Mi accordai con loro per andare a fare i vari lavori domestici e cucinare qualche piatto all'italiana. Il problema era che per entrare e uscire dal campo senza venir fermato dovevo avere l'apparenza francese. Mi prestarono un pastrano e una bustina, e la cosa si rivelò ottima perché non ebbi nessuna difficoltà nell'entrare e tornare. Con i giovani francesi a volte si discuteva anche di politica e su un punto eravamo in pieno accordo: fascisti e nazisti dovevano essere sconfitti a vantaggio della democrazia. Questo andazzo durava già da una quindicina di giorni quando un mattino, dopo la solita conta, venne un dottore tedesco. Mi visitò e disse ai soldati che prendevano nota che io ero ormai in grado di riprendere il lavoro.
Avendo compreso quanto il dottore aveva diagnosticato, nel pomeriggio andai nel campo francese ed informai i miei amici che dovevo tornare al lavoro; li salutai e ringraziai tutti e ci abbracciammo. Al rientro mi accompagnò un amico francese perché doveva riprendersi il pastrano e la bustina che indossavo.
Fui molto dispiaciuto di questo addio. Era il mese di maggio e si incominciava a sentire aria di primavera.
Dopo due giorni, al mattino fui chiamato con altri sei compagni; ci caricarono su un camioncino e come al solito senza sapere la nostra destinazione, partimmo.
Immaginavo di venir riportato al campo da dove ero partito.
I miei compagni provenivano da altri campi, dicevano che andavamo a lavorare in campagna; arrivammo invece ad un altro campo molto piccolo. V'era una baracca con una trentina di soldati italiani. A sorvegliarci un caporale tedesco, zoppo. La baracca era situata all'estrema periferia di un paese molto prossimo alla stazione ferroviaria, e tutt'intorno campagna. Il paese si chiamava Neuhaus. La baracca era più piccola, i letti a castello con materassi di paglia. Mi sembrava d'essere arrivato in un altro mondo. La cucina era gestita da civili belgi e da loro andavamo a prendere il rancio che era distribuito due volte al giorno; il pasto era meno sgradevole, con in più, oltre al solito pane e margarina, anche delle patate bollite. La fabbrica ove andai a lavorare era vicina; si attraversava la ferrovia ed eravamo sul posto di lavoro.
Era una fabbrica piuttosto malandata, in cui si producevano mattonelle nere di catrame. La miscela per produrle era di sabbia e catrame. Iniziai a lavorare alla pressa, non era un lavoro faticoso, bensì noioso. Si faceva sempre la stessa cosa per nove ore. Si iniziava il lavoro alle otto del mattino; a mezzogiorno c'era un'ora di interruzione e si riprendeva fino alle sei di sera. Nella baracca, intanto, simpatizzai un po' con tutti. C'erano veneti, meridionali, lombardi, e l'infermiere era di Rimini. Tempo dopo mi cambiarono lavoro; mi assegnarono come aiuto ad un civile tedesco, responsabile della miscela-base delle mattonelle. Era una persona anziana, magra, piccola, con la quale pian piano feci amicizia. All'inizio, come al solito fingevo di non capire il tedesco, ma un giorno (dopo circa un mese) mentre versavamo come al solito in un grande cilindro, che aveva al centro un mescolatore, la sabbia ed il catrame bollente che arrivava dai silos, mi disse: “Mussolini ed Hitler sarebbe bene buttarli assieme (“Zusammen”) qui dentro”. Capii allora che l'uomo era contrario al nazismo. Gli assicurai con calore che ero d'accordo con lui e con l'occasione lo informai che comprendevo e parlavo il tedesco. Ebbe un sorriso di compiacimento. Il giorno dopo mi raccontò che aveva un figlio con il quale non poteva parlare di politica perché militava nelle SS. Il nazismo, si lamentava, è la rovina della Germania. In fabbrica c'era molta diffidenza tra gli stessi civili tedeschi, e quindi badavamo di non farci vedere a conversare. Tutte le mattine mi portava due fette di pane con margarina ben incartate, e per timore d'esser visto lasciava il pacchetto dietro ad una colonna. Era proprio una brava persona. Mi teneva sempre al corrente di come andava la guerra e questo mi era di conforto; venivo infatti a sapere che ormai la Germania perdeva su tutti i fronti ed era prossima alla sconfitta. Di notte i bombardamenti sulle città continuavano ed eravamo sempre svegliati dagli allarmi. Una sera, era il mese di luglio, arrivarono in ordine sparso dei grossi bombardieri che volavano più bassi del solito, e per sei-sette ore continuarono a passare. Una cosa impressionante, il rombo assordava e lontano si vedevano dei lampi. Il giorno dopo il mio amico tedesco mi informò che avevano raso al suolo Hildesheim, una cittadina molto industriale. “È stata una rappresaglia americana” mi disse.
Il giorno prima la contraerea di Hildesheim aveva abbattuto un aereo americano ed i piloti che si gettarono con il paracadute erano stati mitragliati ed uccisi mentre erano ancora in aria.
Come poteva aver saputo dell'uccisione dei piloti americani per me fu sempre un mistero, visto che erano stati abbattuti solo la sera prima. Dopo alcuni giorni mi raccontò dell'attentato ad Hitler: era fallito e c'era stata una feroce repressione.