Resistenza

Il nuovo lavoro nel cantiere era di portare ai piani superiori di una grande costruzione dei tubi, che venivano successivamente saldati dai civili tedeschi; molto probabilmente servivano per la produzione di prodotti chimici. Pensammo di sabotare l'impianto e così inserimmo nei tubi (di circa dieci centimetri di diametro) degli stracci, spinti con forza all'interno con un bastone. Questa cosa ci dava una gioia immensa per quanto il rischio fosse grande. Incominciai in quei giorni a non stare bene, a soffrire di dissenteria grave e continua, qualsiasi cosa mangiassi, così che infine, non reggendomi più in piedi, fui ricoverato in infermeria. Qui, per altro, non mi fecero alcuna cura ma perlomeno non dovevo andare a lavorare. V'erano là con me quattro o cinque compagni, più o meno con gli stessi sintomi.
Improvvisamente un mattino ci fanno fare i bagagli, ci fanno salire su un camioncino, e via. In viaggio tra di noi facevamo delle previsioni molto nere sul nostro futuro perché già circolava la voce di campi di annientamento di prigionieri. Fortunatamente (si fa per dire) ritornammo al campo base, allo Stammlager XI-B. Nella baracca che questa volta mi fu assegnata eravamo tutti in pessime condizioni di salute, al punto che con fatica ci reggevamo in piedi. Alla mattina v'era sempre qualcuno che purtroppo non si muoveva più. Il poveretto veniva preso, messo in una “finta cassa” da morto e quindi trasportato fuori con un carretto. Distante dalle baracche c'era una grande fossa, la cassa veniva posta su un binario, quindi il fondo della stessa veniva sfilato, il corpo cadeva e subito gli veniva versata sopra della calce in polvere.
Il carretto tornava con la cassa, vuota, pronta per un altro cadavere, e così via.
Questo lavoro veniva fatto eseguire dai tedeschi a noi prigionieri.


Al mattino dovevamo alzarci per essere contati, ma facevo una fatica enorme a stare in piedi perché mi si erano gonfiate le gambe; tuttavia capivo che rimanere in branda sarebbe stata la mia fine; per riuscire a camminare mi appoggiavo alla parete esterna della baracca. Il rancio era sempre un mestolo di acqua e rape ed un pane da dividere in otto.
Due o tre giorni dopo al mattino sentii chiamare il mio numero dalla baracca del comando tedesco. Con uno sforzo enorme raggiunsi la baracca. Il soldato che mi aveva chiamato mi informò che c'erano due pacchi per me. Li aprì per controllo, tolse per sé due pacchetti di sigarette, e me li consegnò. Lentamente, ma con gioia immensa tornai in baracca e sulla branda aprii il primo pacco che era di mio zio Ugo, di Russi di Romagna, al quale avevo inviato con la posta mensile il mio “buono”. Conteneva un salame e tanto pane secco romagnolo. In quel momento intuii che forse ce l'avrei fatta a rimettermi. Rinunciai al rancio in favore dei miei compagni e per parecchi giorni mi sostenni solo con il contenuto dei pacchi. Il secondo pacco era stato spedito dai miei e comprendeva anche degli indumenti e del riso, che cuocevo quando mi era possibile. In una maglia trovai due pacchetti di sigarette non visti dal soldato tedesco; questi furono, come si vedrà, la mia fortuna.
Lentamente la dissenteria cominciò a diminuire, le gambe si sgonfiavano e cominciai a camminare con franchezza.